Il fascismo

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Il regime fascista individua nei nuovi mezzi di comunicazione di massa lo strumento per plasmare le masse nella nazione, così la foto di regime è tesa ad affermare la supremazia del pubblico sul privato. L'idea di popolazione come massa organica plasmata e forgiata dallo sguardo di potere domina tutta la rappresentazione della società
Nell'autorappresentazione del fascismo costante è una tensione permanente (e lacerante) tra la spinta iconoclasta e controspinta monumentale, fra icone che evocavano la sovversione e icone che inventavano una tradizione. Il problema del fascismo fotografico era il medesimo del fascismo tout court: consisteva nella determinazione del fascismo di proclamarsi regime, cioè struttura rigida di governo della società e delle istituzioni, senza per questo voler rinunciare al movimento proprio della sua dinamica originaria. Anche le immagini riguardanti la periferia salernitana sono fortemente permeate dalla duplice aspirazione.
Al valore documentario della folla che nel 1928 affluisce in piazza si sostituisce progressivamente quello di un'immagine che non tollera vuoti, che fissa in una moltitudine compatta e coesa le grandi adunate degli anni tra il 1935 e il 1939 , il cuore dello spazio simbolico del potere.
Nelle fotografie commissionate dal regime, il privato acquista visibilità attraverso la specifica angolatura di fasi ed eventi della vita –matrimoni, nascite, spostamenti- che vengono sottratti alla loro dimensione individuale e inseriti in rituali collettivi, o appropriati da parte dello Stato.
Se attraverso prestiti, sconti e buoni ferroviari lo Stato penetra nella vita privata e ne scandisce tempi e modalità, contemporaneamente stabilisce nuovi legami tra individui, mette gli uni accanto agli altri e ne dà rappresentazione pubblica.
Ben prima della militarizzazione della società italiana, che nettamente si percepisce nelle foto successive alla guerra d'Etiopia - all'inizio della quale Mussolini visita Eboli - riguardanti le comunità salernitane, lo sguardo fotografico «mette in divisa» una serie di corpi «sociali» in funzione della guerra (o meglio delle guerre) fasciste che avrebbero dovuto far nascere l'italiano «nuovo».

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